[41] an exhibition, 2017

 

41 di Alessandro Sciarroni
testo di  Frida Carazzato

 

Animali impagliati e occhi di vetro colorato che ti guardano. Giardini botanici e forme create da un caleidoscopio. Foto della medesima diva sulle ante di un armadio e statue di cera. E poi tutto che vira verso il blu.

 

41 di Alessandro Sciarroni è un racconto apparentemente disarticolato di luoghi, persone e ricordi in cui messa in scena e memoria si intrecciano.

 

“Per me il soggetto di un’immagine è sempre più importante dell’immagine stessa. È più complicato”[1]. Le parole di Diane Arbus – fotografa americana attiva negli anni ‘50 e ‘60 – sono state performate da Alessandro Sciarroni in un lavoro del 2010 intitolato Lucky Star. Sul portale internet youtube si può vedere un breve video in cui l’artista recita la frase con i due performer coinvolti nel lavoro. Non lo considero un caso.

 

Arti performative e fotografia si incontrano nel suo percorso artistico, eppure la mostra dal titolo 41 non è un racconto di come questo avvenga né tanto meno un tentativo di trovare nelle fotografie di Sciarroni gli elementi che caratterizzano la sua produzione nel campo della danza e della performance. 41 è invece la condivisione con il pubblico di un ulteriore aspetto dell’universo di Sciarroni, una sorta di percorso parallelo e meno conosciuto che vive, per la natura del mezzo utilizzato e anche nella fruizione, di una temporalità diversa rispetto a quella del linguaggio performativo.

 

In mostra si incontrano innanzitutto due tipologie di immagini: quelle realizzate da Alessandro Sciarroni stesso e quelle in cui ne è il soggetto.

 

Nel primo caso i soggetti ritratti sono animali impagliati all’interno di vetrine o di diorami? dei musei di scienze naturali visitati dall’artista in questi anni, oppure le piante accuratamente posizionate dei giardini botanici, o le copie fedeli dei volti e dei corpi delle celebrità del nostro tempo custodite nei musei delle cere. Tuttavia a questa selezione di soggetti, che hanno la caratteristica di essere tutti delle riproduzioni a scopo scientifico o ludico, è accostata la realtà dei volti di persone o situazioni legate alla vita privata dell’autore, come gli amici e la famiglia, o all’ambiente domestico. Lo sguardo gettato nell’intimità di alcune situazioni, le inquadrature che consentono di / entro cui è permesso percepire particolari ambienti, la scelta nel ritrarre i soggetti in questo nucleo di lavori, rimandano necessariamente / non possono non rimandare a percorsi già tracciati nella storia della fotografia contemporanea, come per esempio l’universo intimo e poeticamente crudo dell’americana Nan Goldin, o l’approccio al mezzo fotografico e al suo linguaggio del tedesco Wolfgang Tillmans, con la piena consapevolezza di ripercorrerne le ricerche e gli approcci.

 

Nel secondo caso invece si incontra lo Sciarroni che si è appropriato di immagini in cui è lui a essere ritratto, fotografie che presentano ricordi comuni e quotidiani, spaccati di un’infanzia che tuttavia non vogliono annunciare nulla di quello che sarà il percorso futuro dell’artista, bensì creare un ponte tra l’autore e il soggetto stesso.

 

Inevitabilmente si delineano ed emergono nella mostra gli elementi biografici, dapprima il titolo riferito all’età del suo autore, successivamente il ritratto fotografico che introduce alla mostra: un’immagine riprodotta in grande formato in cui un Alessandro Sciarroni in abito da principe azzurro si atteggia inconsapevolmente nella posa tipica del ritratto nobiliare a figura intera. I titoli di ciascuno scatto riportati nelle didascalie definiscono infine una sorta di schedario di date che determina un ponte temporale tra l’immagine che si guarda e il momento in cui è stata scattata. Eppure gli accostamenti delle foto nell’allestimento, il formato scelto per la riproduzione delle immagini, la mancanza di cornice nella presentazione delle fotografie inducono lo spettatore a rivolgere lo sguardo più sul soggetto ritratto che sull’oggetto “immagine”, come annunciava l’artista riprendendo le parole di Arbus. In questo senso si può parlare di relazione tra la produzione artistica con cui Alessandro Sciarroni è maggiormente conosciuto e l’Alessandro Sciarroni fotografo, ovvero l’attenzione data al soggetto inteso non come oggetto dello sguardo, ma come agente di un’azione in cui è stato immortalato.

 

Se la pratica performativa di Alessandro Sciarroni è caratterizzata dalla continua tensione tra struttura e spazio di possibilità all’interno di un meccanismo stabilito, tra ripetizione e improvvisazione, tra codici e regole dichiarate e le nuove immagini che da questi formati si possono creare, il linguaggio fotografico viene utilizzato dall’artista per svelare o mettere in luce ciò che il soggetto fotografato per sua natura dovrebbe nascondere: così gli animali impagliati all’interno delle teche si dichiarano delle nature morte; i paesaggi apparentemente naturali si affermano pienamente nella loro artificiosità e i volti delle celebrità nell’essere in realtà dei simulacri.

 

Come accade con l’umanità e la “complessità” delle persone che collaborano con Alessandro Sciarroni e che vengono rivelate all’interno delle sue produzioni per il teatro e la danza, le sue fotografie si concentrano su dettagli e gestualità che possono rivelare molteplici racconti. Una mano che sembra cullare una statuetta sacra o il volto del cucciolo di cane ancora con gli occhi chiusi sorretto dalle dita di una mano, così come le stesse fotografie legate alla sua infanzia e adolescenza, dove a essere esposto è il vissuto personale che diventa una storia tra le altre.

 

Nella sua varietà di percorsi 41 è quindi uno spaccato temporale, come afferma il titolo stesso, una mostra che diventa essa stessa la fotografia di un modo di guardare tanto qualcos’altro quanto se stessi.

 

 

[1] “For me the subject of the picture is always more important than the picture. And more complicated”. Diane Arbus, An Aperture Monograph. Millerton, N.Y., 1972.